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Accordi trasformativi: perché collaborare alla loro promozione?

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Riprendiamo un post della Associazione italiana per la Scienza Aperta (AISA) su un tema poco discusso e su cui riteniamo ci sia al momento poca informazione.

Seguendo a proprio modo una tendenza in atto nella maggior parte dei paesi europei, l’Italia ha concluso, attraverso il consorzio Coordinamento per l’Accesso alle Risorse Elettroniche (CARE) che fa capo alla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI), una serie di contratti cosiddetti trasformativi, i quali mirano a far transitare l’editoria scientifica commerciale ad accesso chiuso (pago per leggere) all’ accesso aperto (pago per pubblicare).

I contratti trasformativi sono contratti di solito condotti a livello nazionale tra grandi editori commerciali (meglio definibili come imprese di analisi dei dati) e consorzi come CRUI-CARE, che avrebbero – a dire degli editori – lo scopo di trasformare il modello di business delle riviste da pay per read (ad accesso chiuso) a pay per publish (ad accesso aperto) attraverso un regime transitorio chiamato read and publish. L’intento è quello che editori e istituzioni lavorino insieme per arrivare, in un tempo nominalmente breve, ad un sistema di pubblicazioni scientifiche totalmente aperto con costi sostenibili per le istituzioni e profitti adeguati – cioè concorrenziali e non monopolistici – per gli editori.

I contratti trasformativi dovrebbero avere una serie di caratteristiche irrinunciabili:

  • trasparenza delle regole e dei costi, preferibilmente con la pubblicazione degli accordi stessi visto che riguardano l’impegno di fondi pubblici;
  • transitorietà: questi accordi devono essere transitori (e di breve durata). Gli editori dovrebbero manifestare l’impegno (morale) a trasformarsi in full open access anche attraverso una rendicontazione annuale di quanto l’editore ha pubblicato in open access, dei costi sostenuti e dei profitti, con una proiezione rispetto al tempo necessario per la trasformazione (come richiesto da Coalition S);
  • costi invariati: i contratti non dovrebbero prevedere una immissione ulteriore di denaro nel sistema (rispetto ai contratti pay per read) e, in generale, gli APC dovrebbero essere monitorati;
  • inclusione: gli accordi, ora quasi esclusivamente riguardanti solo parte delle riviste ibride dell’editore, dovrebbero comprendere almeno tutto ciò che una istituzione pubblica coi propri autori come “corresponding authors” nelle riviste ibride e auspicabilmente anche in quelle totalmente open access.

L’Italia ha concluso una serie di contratti che sono stati quasi tutti registrati in un apposito sito web: ESAC.

Gli autori delle istituzioni contraenti hanno a disposizione un numero annuale di voucher che permettono loro di pubblicare ad accesso aperto con la garanzia che il loro costo verrà sostenuto dalle istituzioni stesse, anziché gravare sui loro fondi di ricerca personali. I dati del 2021 ci indicano quanti sono i voucher che sono stati utilizzati dall’Italia: per almeno due editori (Wiley e Springer) i voucher si sono esauriti prima della fine dell’anno.

Per le istituzioni che lo desideravano rimane però possibile acquisire altri voucher, sborsando una cifra ulteriore rispetto all’ammontare previsto dal contratto.

Il contratto Springer vale 50 milioni per i 5 anni, mentre quello di Wiley vale 42 milioni per i 4 anni (fonte CRUI amministrazione trasparente)

In questi ultimi mesi molti sistemi bibliotecari italiani hanno pubblicizzato dei seminari finalizzati a spiegare il sistema dei voucher tenuti dagli editori Wiley (23 febbraio) e Springer (12 aprile).

Poiché questi sono proprio i due editori i cui voucher sono andati esauriti prima della fine dell’anno vengono spontanee alcune domande:

  • Perché una università pubblica deve promuovere i servizi di una controparte (privata), e per di più quando, nell’anno in corso, comporterebbero un esborso ulteriore rispetto a quanto previsto dal contratto?
  • Che effetto potrà avere l’enfasi posta (fra le tante vie dell’open access) proprio sui contratti trasformativi non solo sull’evoluzione dell’accesso aperto in Italia, ma anche sui costi per pubblicare? Per quanto saranno sostenibili?

E alcune possibili considerazioni.

Certamente gli editori stanno tentando di rendere il contratto trasformativo “the new normal” in modo che i ricercatori si abituino alla schermata “puoi pubblicare in open access perché il tuo ateneo ha un contratto” e non ne vogliano più fare a meno, inducendo i loro enti a sborsare altro denaro una volta esauriti i voucher annuali. D’altra parte, l’open access green (a costo zero) o diamond non trovano eguale sostegno da parte del consorzio CARE.

Queste pratiche predatorie dimostrano che gli editori “trasformativi” non hanno alcuna intenzione di trasformarsi, ma anzi continueranno a guadagnare profitti monopolistici da questa nuova tipologia contrattuale come hanno fatto fino ad ora con i contratti per gli abbonamenti ad accesso chiuso.

Se di trasformazione si vuole parlare, allora occorre prendere atto che questa è già avvenuta: non si tratta più di editori ma di imprese di analisi dei dati che praticano il capitalismo della sorveglianza, cioè lucrano sui dati personali dei ricercatori.

Ci sfugge invece completamente quale possa essere l’interesse delle istituzioni a sostenere il sistema ibrido ad oltranza, al punto che alcuni sistemi bibliotecari (quali quelli dell’università di Bergamo, di Pavia, di Pisa) non menzionano le alternative non commerciali offerte anche dalle stesse università italiane (incluse, per esempio, alla fine di questo documento).

La Budapest Open Access Initiative ha recentemente raccomandato di abbandonare gli accordi trasformativi per preferire modelli editoriali che vadano a vantaggio di tutte le aree del mondo, sotto il controllo di organizzazioni accademiche e non a scopo di lucro, così da evitare che le letteratura ad accesso aperto si concentri nelle riviste commerciali dominanti continuando a privilegiare i ricchi e a mettere a tacere i poveri. L’accesso aperto non è un espediente per indurre chi pagava per leggere ad abituarsi a pagare – in denaro e dati personali – anche per scrivere. È un mezzo per rendere pubblica la conversazione scientifica e come tale deve essere accessibile a chiunque, indipendentemente dalla sua capacità o propensione a pagare rendite di monopolio.

L’open access ad ogni costo non può essere una opzione.

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